domenico d'erricoDa quando ero poco più di un bambinetto ho avuto sempre il pallino dell’offroad. Negli anni, grazie a Youtube e alle varie riviste specializzate, nonchè alla mia eccitazione da teenager, me la sono fatta un’idea dell’enduro. Più dell’esercizio fisico e meccanico in sé, della filosofia che questa disciplina rappresenta veramente. La Campania dell’offroad è un mondo tutto da scoprire e, per uno dell’interland napoletano, dove è l’asfalto a farla da padrone, è destinato a restare solo una fantasia da visionario. Tutto cambia quando incappo in quel pioniere del fuoristrada di Ugo Filosa, pilotone di decennale esperienza, pluri-premiato, che cerca di lottare da tempo per aprire le menti dei motociclisti partenopei e portare un po’ di fango sotto le ruote di più appassionati possibili. Il suo, più che un progetto, lo vedo come una missione, con i suoi modi da grizzly e quegli occhioni azzurri da winnie the pooh, sarebbe in grado di convincere una formica a spostare una montagna.
Il mio battesimo del tassello è fissato per il 30 dicembre, sulle montagne che sovrastano Gragnano (NA), poco lontano da casa. Ho chiamato Ugo qualche giorno prima, aspetto quel benedettissimo venerdì per saltare nel fuoco, con l’ansia, l’eccitazione e il timore di uno che sta per salire su un ring, senza sapere contro chi, o cosa, dovrà combattere. Richiamo Ugo per una (poco credibile) scusa, la sera prima, per chiedergli, in verità, informazioni su quello che mi aspetta. Non appena mi avvicino all’argomento, il buon Ughetto devia violentemente il discorso verso altre questioni. Insomma mi tranquillizza e io lascio fare. Sono uno che difficilmente molla. Ho sempre pensato di avere la tempra dell’incassatore. Faccio boxe da 3 anni (4° anno in corso) e conosco bene la sofferenza e il dolore. Il dolore del giorno dopo. Quello che, quando sei sul ring, non avverti, ma sai già che domani sarà dura alzarsi dal letto. Fisicamente sono stato meglio, ma questo non mi abbatte. E comunque adesso è troppo tardi per tirarsi indietro.
Oggi è il giorno. Anticipo inconsapevolmente la sveglia di un’ora e mezzo circa (regolata alle 8), quindi alle 6.45 sono in piedi e già con il cuore in gola. Ricontrollo l’elenco mentale di tutta l’attrezzatura che dovrò portare (alla fine, per fortuna, dimenticherò la fotocamera di mia sorella). Sono teso. L’unico rimedio, in questi casi, non può essere che il mio ipod carico fino all’orlo di Pink Floyd. Basta. L’appuntamento è alle 9.30 a Gragnano. Esco di casa alle 8 e mezzo e noto, sull’orlo di una crisi di nervi, che il cielo è fottutamente coperto da una coltre di nuvole che rischiano di far venire fuori altra incertezza. Non fa niente.
Arrivo al luogo dell’appuntamento con quaranta minuti d’anticipo. Per non aspettare in macchina, decido di fare un sopralluogo della zona. Io, terreno non ne vedo. Vabbè. Prendo un pessimo caffè in uno squallido bar. Ho un sapore indecente nella bocca impiastricciata dal subbuglio dei miei pensieri. Mi sembro un condannato a morte. Bello! Finalmente incontro Ugo, alle 9:15, davanti a un altro bar. È grosso e sorridente. Emana energia positiva e sento che, finché starò al suo fianco, niente potrà fermarmi. ‘sto Ugo è una roccia!’
Prendiamo un secondo caffè, stavolta superbo, seduti al tavolino di un bar da VIP! Ho l’impressione di conoscere Ugo da molto tempo. Non lo so perché. Pensandoci adesso, io non mi ricordo il momento esatto della transizione dallo stadio di ‘sconosciuto’, a quello di ‘vecchio amico’. Mah. Arriviamo all’officina, in ritardo rispetto ai piani. Ad aspettarci ci sono 3 moto. Tutte ugualmente macinatissime! Chissà quante ne hanno viste! Una Husqvarna 511 nuova di pacco (col cavolo!) e una RXV 450 (senza ruota posteriore né scarico), separate da una ciclopica adventure arancio e blu, che profuma ancora di Sahara.
L’idea è di salire, io, con la 511 e, la roccia, con l’Aprilia. Siamo ben oltre l’orario stabilito per la partenza ma Ugo, armato di proverbiale pazienza, monta, in un minuto e mezzo di orologio, la ruota posteriore. Lo scarico però non ne vuol sapere di ritornare al suo posto. Dopo svariati tentativi e invane prove con ‘rimedi della nonna’, la decisione è presa, oggi salirà con il Kappone, con una gomma posteriore che penso fosse una SC2. Dell’anteriore non ne voglio parlare, ma penso l’abbia conservata per un paio di turni al Mugello!
domenico d'erricoNel frattempo arriva il primo componente. È a cavallo di una strana moto nera. La scritta sul carter è Yamaha, in netto conflitto con la dicitura sul convogliatore: Rieju. Il casco nasconde il pacioso sorriso di Michelone. Si scambiano le canoniche quattro chiacchiere. Come quando i cani si odorano le chiappe. Michele è una persona semplice, di certo non uno sborone. Lo capisco subito. È uno di poche parole dense di significato. Anche lui emana pace e sicurezza. Ha una telecamera montata in cima al casco che lo fa sembrare un capo indiano. Grande capo, saggio e felpato. Mentre dialoghiamo sopra i due massimi sistemi del Mondo, noto in lontananza una bianca nuvola di fumo, accompagnata da un due-tempistico ronzio, in avvicinamento. Sarà pure lui dei nostri. Un CRE (molto CR e poco E) 250 d’altri tempi con, a cavallo, uno smaliziato pilotone da regionale. Catello mi ha dato subito l’idea di uno che, come si dice a Napoli, tiene ‘Arteteca’. Insomma, lui, fermo non riesce a starci nemmeno un secondo! L’esagitato! Stavolta sotto il casco c’è un ragazzino (non troppo) cresciuto. Con lui non ci annusiamo le chiappe, subito compagni di merende! Lo accompagno a un bar a prendere il caffè, visto che farsi vedere in stivali e casco in giro, da soli, è un po’ una figura da babbo di minchia. Però fare la figura dei babbi, in due, è più divertente, e io mi presto! Con Catello vien fuori il fatto che io sono Ducatista convinto. Maledetto me che gliel’ho detto. Mi hanno martellato con ‘sto fatto!
È arrivato il momento. Inforchiamo le moto, Ugo sale sulla nave, e ci incamminiamo verso chissàddove! Dunque, per chi non lo sapesse, i tasselli sull’asfalto bagnato non è che non abbiano grip, danno più la sensazione di essere su una moto d’acqua. O mio Dio. Cerco di adattarmi alla situazione e di capire la moto per quanto mi è possibile, visto che già ho il cervello imballato. Passiamo per posti mai visti. Sono dei centri abitati che non ricorderò mai. Infine comincia una salita asfaltata da operai, che evidentemente dovevano essere ubriachi o bendati, magari tutt’e due. Si arriva a un tornante. L’esagitato si butta a gas spalancato nel sentiero, manco fosse in fuga dai crucchi in tempo di guerra! Invece la roccia e grande capo mi aspettano di traverso, improvvisando un posto di blocco. Ugo, da sotto al casco, mi dice che da qua comincia lo sterro.
Ci siamo: THIS MUST BE THE PLACE.
Si tratta di salite lisce (a detta del maestro, ma per me erano tempestatissime!) e diritte unite da tornanti stretti e secchi. Già conosco la strada, l’ho vista da un video onboard su Youtube. Questo mi aiuta. Ok, proviamoci. Salivazione: zero percento. Faccio tesoro di tutte le dritte che mi danno ugo e michele. Ugo mi svela che la mia moto ha le mousse, quindi le pietre le apro in due, basta solo che tengo il gas spalancato. Grazie al catso. Comunque questo tratto mi dà un sacco di gusto. Ogni volta che ragiono e metto in pratica i consigli della roccia, mi stupisco di quanto abbia ragione! L’husq è un treno, sulle pietre non scarta mai, i tronchi non li vedo nemmeno, ne faccio un sol boccone! Poi arrivano i tornanti, penso di averne fatti 7/8, di cui almeno sei col culo per terra. Sto prendendo fiducia. Cerco di appoggiare pure la seconda ogni tanto. Viaggio diligentemente in sottocoppia. Oddio sto sudando come un maiale ad agosto! Mi sono bardato di tutto punto, dalle calzamaglie alla maglia intima pesante. Mai fu fatta cazzata più grande!
Guardando in avanti mi accorgo che il terreno è sporco. Cioè è bianco. Che cazzo succede? Neve. È neve. Ugo mi raccomanda di stare lontano dalle tracce delle ruote di macchina. Riesco a tenere la moto nella parte con più grip per massimo dieci metri. Puff. Culo a terra. Ah, a titolo informativo, il ghiaccio è scivoloso, pure coi tasselli! Non riesco a stare sulle piante dei piedi. Sudatissimo. Mi caccio in tasca gli occhiali bagnati e appannatissimi. Non so come, rialzo la moto ma scivolo e cado a terra. Al quinto tornante con le chiappe interrate vedo una macchia arancione che punta verso di me, a dir poco inerme, per terra. Questo m’ammazza! Mi dribbla all’ultimo momento con la sicurezza degna di un Maradona dal dischetto. Il compaesano Paolo è uno sfottitore di prima categoria. Oltre ad essere un animale in fuoristrada. Dà l’impressione di avere sempre tutto sotto controllo. Riesce a mettere le ruote dove gli pare. Se la gode. Una libellula. È un altro con l’arteteca, ma s’affeziona a me, e si sorbirà i miei lamenti per tutta l’uscita insieme al buon Ugo, che non mi molla mai nemmeno di un metro. Dispensa preziosi consigli manco fosse Wikipedia, e mi porta la moto avanti di un centinaio di metri. Grazie Paolo. Vado a piedi. Camminare su un impervio sentiero ghiacciato con tutta l’attrezzatura addosso, è frustrante. Per fortuna i ragazzi mi consolano e mi danno la forza per non mollare. Mi giro indietro. Ugo si arrampica con la navetta con una disinvoltura incredibile. Quando si pianta, comincia a pedalare inesorabile, non molla mai. Avete capito perché lo chiamo Roccia? Mi aspetta in cima, non ha intenzione di farmi sprecare altre energie camminando a piedi, quando mi intima di salire a bordo! Questi da piccoli devono essere caduti in una pozza di melma, e si vede che glien’è rimasta un po’ ad intaccare gli emisferi cerebrali. Non ho la forza nemmeno per dirgli che non ce la faremo mai, in due. Salgo. Non so se avete mai visto 2 orsi in sella a una moto nella neve. A me non era mai capitato e non pensavo fosse possibile. Roccia è infinito. Mi porta fino alla moto. Là ci trovo un insolito bivacco. Ci sono tutte le moto ammassate da un lato. E i ragazzi si sbragano (non letteralmente…). Nevica tipo Cortina ma nessuno se ne frega un catso. Bello! Siamo tutti vicini vicini, e cominciano i racconti zozzi di paolone che sfotte tutti. Io sono preso di mira per via delle Ducati, gli altri a causa di una gara finita letteralmente nella merda. Fino alla mascherina portafaro. 

dome3Qui, adesso, viene fuori l’idea dell’enduro che avevo. Ho l’impressione che quella sosta l’abbiano fatta solo per me. Sia per farmi rifocillare, riprendere fiato, ma soprattutto per ridarmi morale. Mi dimentico di tutto quello che ho buttato in quella maledetta salita e mi lascio andare agli sfottò. Si fanno le foto, e io non vengo lasciato fuori, anzi! Lo apprezzo molto e mi sento parte del gruppo. Ancora di più. Bando alle ciance, abbiamo fatto al massimo 3 km. Penso siano passate 2 ore, sono cotto. Inforchiamo le moto e via. Ugo parte per primo, inondandoci, non troppo involontariamente, di neve e fango. Paolo mi chiede se so sciare. Sì che so sciare! E vaii! Non c’è da essere entusiasti! Paolo sfotte! Ci attendono dei tratti decisamente più guidabili, ma io ormai sto già pensando di voler tornare a casa. Mi sembra di aver attraversato la Groenlandia, ma so che ci siamo allontanati veramente di pochi km dalla partenza. La testa mi ha abbandonato totalmente, sono imballatissimo, non vedo niente senza occhiali, non sento dolore né freddo. Niente. Sto andando col pilota automatico e l’unica cosa che mi interessa è non cadere più. Il desiderio di non cadere ti trascina in un limbo dal quale è difficile venire fuori. Vai piano, troppo piano e sei rigido come un’asse da stiro. Brutti segni.
L’ultima, terminale, insostenibile, caduta arriva in un punto abbastanza innocuo. Una bella pozza di fango da affrontare a gas spalancato. Gas spalancato un corno! Mi ci tuffo dentro proprio alla cagnotto! Peccato non ci fosse la giuria a guardarmi, sennò un posto a Londra 2012 non me l’avrebbe negato nessuno. Benzina sul fuoco. A tutto il resto adesso si aggiunge l’acqua. Risalgo in moto zuppo. Sento negli stivali delle onde anomale che mi solleticano le dita dei piedi. Almeno questo mi tiene sveglio. Della sensibilità alle mani rimangono solo pochi, preziosissimi, residui. Raggiungo Grande Capo, fermo, intento a sistemare la telecamerina sul casco. Ugo è avanti, mi ha lasciato con la libellula. Il tarantolato di Catello è solo un vecchio ricordo. Non ci rivedremo più.
Mi fermo accanto al Capo, mi rifocillo, strizzo i guanti, metto le mani sul radiatore caldo e chiedo quanto manca all’arrivo, scoprendo che ci vogliono circa 20 minuti. Ancora? Catso. Stringo i denti, e nel frattempo Paolo (Libellula) continua ad andare su e giù per i sentieri che stanno attorno a noi, per riscaldarsi, testuali parole. Ma vaffan…! Vabbè sono io che non ci sto con la testa. Ha ragione. Comunque sono sull’orlo di un precipizio. Non c’è altro modo di uscire da lì (a proposito, dove siamo? Mah…) se non quello di andare avanti e seguire il gruppo.
I ragazzi si rompono i maroni e vanno avanti, io seguo le tracce grazie ai miei innati sensi di ragno. Comincia finalmente l’asfalto, e mi sento più vicino a casa e anche più tranquillo. La pioggia cade irrefrenabile dalle grigie nubi sopra di noi. L’asfalto, che pensavo fosse il substrato a cui potevo dare più confidenza, è pieno d’insidie. Devo far scorrere la Husq senza toccare nulla. Pelare un freno significa bloccare la ruota. Bloccare la ruota significa finire col culo per terra. E, adesso, l’asfalto farebbe più male del terreno o della neve. M’imballo ancora di più. Adesso sono sfinito. Ci fermiamo a un incrocio e saluto con un grande abbraccio Paolo, il mio angelo custode in seconda. Ugo scambia due parole con lui e aspetto. Gli altri due non so che fine abbiano fatto. Poco male. Hanno tutto il diritto di fottersene di me, visto che sono le 14, e sono certo del fatto che, se non ci fossi stato io, a quest’ora si stava già tutti a fare la pennichella ristoratrice postprandiale! Non ci posso fare niente.
Mentre torniamo al garage mi accorgo pure che il parafango anteriore punta un po’ a destra. In più il manubrio è storto, i paramani sono accartocciati, la leva del freno post penzola. Forse ho fatto qualche danno. Caspio! Posiamo le moto e ci andiamo a cambiare. Ancora non mi rendo conto di quello che abbiamo fatto oggi. Ringrazio Roccia in tutte le lingue che conosco, sapendo che comunque non è abbastanza. Gli do dei dolci e un pezzo di casatiello salato che avevo non-so-perché portato da casa. Ci salutiamo e mi compare quel sorriso ebete sulla faccia sporca di fango. È stato un incubo. Questi sono dei pazzi. Mi infilo in macchina. Mando un sms a Ugo: a quando la prossima uscita? Ma che mi prende? Forse ho un pezzo di melma infilato tra i due emisferi cerebrali.

Domenico D’Errico